Sarà per l’ormai consolidato interesse di molti per il cibo oppure per il nuovo modo di concepire il viaggio. Forse per la consapevolezza che la cultura non si trova solo nei musei e negli edifici storici, ma vive anche nelle abitudini alimentari dei popoli, nel modo di preparare i cibi e di produrli. Sarà per tutte queste ragioni e infinite altre che negli ultimi anni l’enogastronomia è diventata un vero e proprio traino per il settore turistico.
Un po’ di dati
Come emerge dall’ultimo Rapporto sul Turismo Enogastronomico – ormai all’undicesima edizione, realizzato da Roberta Garibaldi, docente universitaria e grande esperta del settore – l’enogastronomia non solo occupa una posizione importante nei desiderata dei turisti, ma in modo sempre crescente influenza le scelte di viaggio fino a diventare motivazione primaria per il 58% dei casi nel 2023.
All’interno di questo panorama il mondo del vino è storicamente in cima alle preferenze dei turisti, ma in questi anni l’interesse ha cominciato a dilagare verso altri ambiti, come l’olio, la birra e il formaggio.
Sul rapporto del 2023 si legge: “Il 74% dei turisti italiani ha visitato luoghi di produzione nel corso dei viaggi degli ultimi 3 anni: in testa troviamo le cantine (con il 34%), seguite da caseifici ed aziende agricole (28%). Cresce l’attenzione verso le experience in tutti i luoghi di produzione: in particolare, l’interesse verso il formaggio raggiunge (quasi) quello per il vino.”
Ogni anno lo studio ci rivela inoltre che esiste un gap considerevole tra le attività che il turista desidera e ciò che effettivamente riesce a svolgere, segno che la domanda corre più veloce di quanto i produttori riescano a offrire in termini di attività e accoglienza.
L’inizio di un processo virtuoso
Caseifici e aziende agricole casearie, che fino a un paio di lustri fa disponevano di spazi pensati ai soli fini produttivi, hanno iniziato a muovere i primi passi nell’ambito dell’ospitalità e ad aprire le porte del loro mondo al pubblico.
È un processo lento, tuttavia ogni anno l’offerta aumenta: seguendo le orme collaudate del vino, si vedono comparire via via nuove “cheese experiences” lungo tutto lo stivale. Per fare qualche esempio, penso al Caseificio di Nucci, che in Molise oltre alla visita in azienda e al racconto della storia di famiglia ha recentemente allestito un museo della transumanza. Oppure all’agriturismo Da Fabiana, in Alta Langa, Piemonte, dove ogni componente della famiglia dedica un po’ del suo tempo agli ospiti mostrando il proprio lavoro e offrendo una generosa degustazione dalle contaminazioni sarde come le loro origini per concludere.
Le ragioni di questa apertura non si trovano solo nella risposta alle richieste del pubblico, ma anche in quell’esigenza sempre più stringente per i piccoli produttori di raccontarsi e di far comprendere il valore del proprio lavoro.
Nonostante le criticità di tipo organizzativo che incontrano in special modo i piccoli produttori di formaggio, sono convinta che il progressivo sviluppo del turismo caseario possa avere risvolti positivi sotto ogni punto di vista, anche territoriale. Non è raro trovare aziende casearie in aree interne duramente colpite dallo spopolamento. Si tratta di realtà che con grande caparbietà presidiano il territorio attraverso l’allevamento estensivo e la trasformazione del latte. Visitarle significa contribuire alla sopravvivenza di quei piccoli borghi a rischio di abbandono e dei saperi che tramandano.