Pubblicato su Il Gusto – maggio 2024

Siamo abituati a considerare il tempo come un elemento oggettivo, perfettamente misurabile e inesorabile. Il suo scorrere è inteso come qualcosa di equo, a cui l’intera umanità è soggetta allo stesso modo, senza sconti o privilegi per nessuno, sebbene le percezioni soggettive dei singoli individui siano in grado di dilatarlo o comprimerlo a dismisura.

Relatività formaggio-tempo

C’è però un ambito nel quale tutti i presupposti su cui si basa la nostra abituale concezione del tempo sono completamente scardinati: il formaggio.
Il fattore tempo è estremamente relativo quando si parla di produzioni casearie. Senza scomodare curve gravitazionali einsteiniane, possiamo trovare le origini della relatività del tempo nei formaggi stagionati in luoghi terreni e alla portata di logiche semplici.

Sulla base della forma, dimensione, peso – detta pezzatura – e livello di umidità dei formaggi, il tempo può avere effetti molto diversi: per una forma a pasta dura di Parmigiano Reggiano DOP dal peso di circa 40 kg, un anno è appena sufficiente per apporvi il bollo ovale di selezione e poter essere commercializzato, giovanissimo. Per una forma a pasta molle di Roccaverano DOP di 250g, un mese è considerato una stagionatura notevole e pressoché introvabile in commercio, a meno di non recarsi direttamente da un produttore.

La stagionatura

Osservando i formaggi posti a stagionare sugli assi si ha l’impressione che questi riposino in grande tranquillità, ma in verità la stagionatura è un processo di maturazione complesso, che vede come protagonisti gli innumerevoli microrganismi che all’interno e all’esterno di ogni forma lavorano operosi. Questi ultimi attraverso le loro fermentazioni sono responsabili del profilo aromatico e dei “buchi” del formaggio – l’occhiatura – insieme alla degradazione di grassi e proteine che scomponendosi in particelle più semplici, quali acidi grassi e amminoacidi, permettono al formaggio di trasformarsi e raggiungere la maturazione. È il passare del tempo che ci permette di percepire nei formaggi l’umami, il quinto sapore, quella calda sensazione di “saporito” che ricorda il brodo di carne, oppure quegli adorabili cristalli che soprattutto nei formaggi a pasta dura scricchiolano sotto i denti. In entrambi i casi si tratta di amminoacidi liberati dal processo di degradazione delle proteine.

In linea di principio, maggiore sarà la varietà di microrganismi presenti nel latte e successivamente nel formaggio, maggiore sarà la complessità aromatica del prodotto finito. Col giusto tempo a disposizione, la straordinaria biodiversità invisibile del latte crudo ha modo di esprimersi pienamente, regalandoci vere e proprie esperienze durante l’assaggio.

Il custode del tempo

Muffe, batteri ed enzimi sono gli artefici della metamorfosi del formaggio, ma non sono soli. A dirigere l’intero processo c’è colui/colei che potremmo definire “custode del tempo”: lo stagionatore. Nelle realtà più piccole si tratta spesso del produttore stesso, nei caseifici più strutturati ci possono essere una o più persone addette alla sola stagionatura. Esistono infine aziende terze che selezionano e acquistano i formaggi freschi dai produttori e li portano a maturazione; sono specialisti dell’ultima fase di produzione del formaggio e sono chiamati affinatori, mutuando dal francese affineur, stagionatore appunto.

Qualunque sia la sua forma, mi piace pensare allo stagionatore come a un allevatore di microrganismi, i cui gesti e accorgimenti sono in grado di farne sviluppare ceppi diversi in base al risultato finale voluto. Giocando con temperature e umidità degli ambienti può far cambiare volto a un formaggio, lavandone la superficie con acqua e sale permette lo sviluppo di un organismo che tinge di rosa/arancio la crosta e destruttura le proteine del sottocrosta rendendone la pasta cremosa, come nel caso di certi Taleggio DOP o del Reblochon AOP. Oppure, forando le forme con appositi aghi d’acciaio permette il passaggio d’ossigeno all’interno della pasta per favorire l’erborinatura, nel caso dei formaggi blu.

Culture e stagionature

Così come accade nelle fasi precedenti di allevamento degli animali e della trasformazione del latte, anche nella stagionatura c’è cultura, usi, tradizioni, territorio. In Italia ad esempio, amiamo che le croste siano pulite, ben spazzolate o oliate, in centro Europa le preferiscono lucide e cappate, in Francia incoraggiano la crescita delle muffe in superficie e alcuni formaggi come la Mimolette contemplano nel processo l’uso degli acari del formaggio, illegali altrove.

Ma non è solo questione di tecnica, un bravo stagionatore è anche dotato di grande sensibilità sensoriale: toccando, odorando e sentendo accompagna i suoi formaggi giorno per giorno. Si tratta di un mestiere empirico in cui l’osservazione dei cambiamenti e delle evoluzioni è di importanza primaria. Anche perché c’è un unico modo per sapere quando un formaggio è giunto alla fine del suo percorso di maturazione: assaggiare! Non a caso, tra gli strumenti più preziosi del mestiere c’è il tassellatore, un coltello dalla lama concava in grado di forare le forme, dare modo di ispezionarne e assaggiarne la pasta e di richiudere.

Il momento giusto per ogni tipologia casearia è peculiare. Equilibrio, intensità e complessità sono i cardini. Il tempo del formaggio è come una curva parabolica, eccedere potrebbe vanificare ogni sforzo.

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