Pubblicato su “I piaceri del Gusto” – novembre 2022
C’era una volta in un angolo della Valtellina un formaggio antico, una piccola produzione d’alpeggio, che oggi definiremmo eroica, frutto del lavoro simbiotico tra i pastori, la montagna, le vacche brune alpine e le capre orobiche, razza autoctona che popola la zona fin da epoche lontane, dal lungo mantello spesso bicolore come una coppetta di gelato vaniglia e cioccolato.
L’intero ecosistema, il cui cuore pulsante era un torrente di nome Bitto, dava al formaggio caratteristiche uniche, come la grande attitudine all’invecchiamento, e non da ultimo anche il suo nome: Bitto appunto.
Ma come in una commedia di Oscar Wilde, a volte le scelte dei protagonisti possono avere risvolti imprevedibili e rocamboleschi. A seguito della decisione di un gruppo di produttori di ottenere il riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta (DOP), a metà degli anni ‘90 le cose cambiarono.
L’idea era di dare nuova linfa all’economia di valle, con un aumento significativo delle forme di Bitto prodotte, in modo da poter sostenere il mercato. Per farlo si rese necessaria una ristrutturazione dei metodi di allevamento e produzione: col nuovo disciplinare vennero introdotti i mangimi concentrati nell’alimentazione delle bovine e l’uso di fermenti selezionati nei caseifici. Anche l’aggiunta del 10% di latte di capra, imprescindibile nella fabbricazione del Bitto “storico”, divenne pratica facoltativa a discrezione del produttore.
Non tutti si sentirono di abbracciare il nuovo modo di fare Bitto: una manciata di pastori continuò a vivere la montagna come aveva sempre fatto, alimentando gli animali con la sola erba di pascolo e spostandosi a piedi con loro di Calecc in Calecc (piccoli ripari di pietra) per l’immediata trasformazione del latte in formaggio dopo ogni mungitura, senza aggiungere altro. Ne seguì una profonda crisi identitaria, di chi improvvisamente non solo non si sentiva più rappresentato dal proprio nome ma vedeva addirittura minacciata la propria esistenza, a causa di un sistema che, ironia della sorte, avrebbe dovuto tutelarlo.
C’era una volta in un angolo della Valtellina un formaggio antico, una piccola produzione d’alpeggio eroica che ha avuto il coraggio di resistere e la forza di riaffermare la propria identità. Oggi si chiama a ragion veduta Storico Ribelle e ogni forma prodotta ci ricorda l’importanza di chiamare ogni cosa con il proprio nome.