È tutta questione di Etichetta.

Se in questo momento fotografassimo le nostre tavole, che siano quelle di casa, del ristorante o il buffet dell’aperitivo, troveremmo due presenze ricorrenti: il vino e il formaggio.
Due prodotti fortemente radicati nella tradizione alimentare italiana, con molte più cose in comune tra loro di quanto non ci si aspetti.

Una differenza salta però immediatamente all’occhio in questa fotografia, una differenza comportamentale.
Il vino è ben identificato con un’etichetta che ci parla informandoci del vitigno, dell’anno e della zona di produzione.
Il formaggio non se la cava altrettanto bene: ritroviamo a volte solo una piccola porzione di etichetta che, ad ogni modo, per ragioni pratiche di consumo viene velocemente rimossa, lasciandolo nell’anonimato.
Non si tratta soltanto di forma.
In perfetta coerenza con la presentazione di questi alimenti ci sono anche i nostri comportamenti, i nostri gesti quotidiani.
Quando scegliamo un vino siamo ormai abituati a chiamarlo per nome, ma quando ci riferiamo al formaggio lo facciamo senza pensarci troppo in modo generico.

Un’evoluzione dolorosa

Se avessimo scattato la stessa foto 40 anni fa, con ogni probabilità avremmo trovato in tavola un bottiglione di vino non meglio identificato, con i commensali a domandare “del vino” o “del formaggio” parimenti indefinitamente.
Paradossalmente, possiamo ringraziare di questo processo evolutivo gli scandali del vino di qualche decennio fa.
Avendo messo gravemente a repentaglio la salute dei consumatori, hanno fatto nascere l’esigenza ai produttori onesti di far riconoscere la qualità delle loro fatiche e ai consumatori di poterla percepire.

Analogamente, i decessi legati al morbo della mucca pazza, hanno fatto fare balzi in avanti alle normative relative a rintracciabilità ed etichettatura delle carni bovine (2001).

In modo fortunatamente meno traumatico, anche il mondo del formaggio ha di recente  visto progressi in fatto di etichette.
L’Italia ha infatti ottenuto dall’Ue autorizzazione affinché l’origine del latte venga indicata nelle etichette di latte e derivati (2017).
La nuova normativa è stata salutata da stampa, istituzioni e associazioni di categoria, come un vero e proprio traguardo nella tutela del consumatore e del Made in Italy.

Non è per fare quella che non è mai contenta, mi rallegro del più piccolo progresso… però a me sembra che siamo ancora lontani da un’etichetta davvero comunicativa.
Se oggi guardiamo l’etichetta di un formaggio, troviamo molte informazioni è vero, ma siamo certi di saperne di più?

L’etichetta dovrebbe essere uno strumento:

  • per comprendere e poter scegliere consapevolmente, per il consumatore;
  • per raccontare il proprio prodotto e trasmettere la qualità del proprio lavoro, per il produttore.

Conoscere l’origine del latte può essere interessante, soprattutto se il paese di produzione non appartiene al quadro normativo europeo.
Ancora più interessante però, sarebbe avere informazioni sulla tipologia di allevamento, così come avviene per le uova ad esempio.

A me piacerebbe sapere se un latte è munto da allevamenti di tipo estensivo, dove vengono rispettati i ritmi degli animali, così meno stressati, più longevi e meno “medicati”.  Dove il loro benessere si traduce in qualità del latte e dove il rapporto tra numero di capi e terreni è più equilibrato e sostenibile anche a livello ambientale.

Mi piacerebbe poter scegliere e premiare con i miei acquisti chi opta per questo modo di lavorare, a prescindere dalla sua collocazione fisica.

Sono anche dell’idea che per ottenere questo genere di informazioni non si debba necessariamente attendere una risposta dal legislatore.
La normativa sull’etichettatura definisce le diciture obbligatorie, ma nulla vieta al produttore di aggiungere maggiori dettagli sul suo prodotto su base volontaria.
Certo si tratta di una “fatica” ulteriore, soprattutto per i produttori più piccoli.

Un bell’esempio di etichetta volontaria in grado di raccontare tutto quel che serve di un prodotto è l’Etichetta Narrante ideata da Slow Food ormai già da qualche tempo.

Maggiore è il dialogo tra chi produce e chi consuma, maggiore la soddisfazione di entrambi.

Ci credo così tanto da averne fatto una professione: sono per lavoro un’Etichetta Vivente, che racconta il formaggio per avvicinare chi assaggia al mondo di chi crea, amplificandone le emozioni.

Vale il principio per cui se davanti a una stupenda opera d’arte ci emozioniamo, il nostro piacere accresce ulteriormente quando una guida ci fornisce dettagli o aneddoti sull’artista, permettendoci di comprendere meglio.
Come un’etichetta.

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