L’immagine qui sopra può sembrare a un primo sguardo quella di una tavola imbandita.
In bella mostra c’è anche un treccione di mozzarella da 2,5 kg da acquolina in bocca, ma non si tratta nemmeno di questo.

Questa foto in realtà è un concentrato di emozioni ad alta intensità.
Per poterlo spiegare c’è bisogno di una premessa.

Un salto indietro nel tempo

Ho vissuto i miei primi 6 anni nella casa in cui sono nata.
Non ne avevo ancora compiuti 7 quando con la mia famiglia partimmo per una lunga avventura lontana.
Nei nostri bagagli c’era lo stretto indispensabile, ma ricordo nitidamente che per me, tutto ciò che era davvero strettamente indispensabile stava rimanendo lì dove era sempre stato: i nonni, gli amici, l’intero universo.
Lì per lì vissi quel distacco in modo doloroso in effetti, ma molto presto realizzai che un pezzettino, quello imprescindibile, di quell’universo era con me.

Grazie a quel pezzettino ho imparato a chiamare naturalmente “Casa” ogni posto in cui ho vissuto (e sono diversi), considerando ogni nuovo spostamento come un’opportunità e aggiungendo ai bagagli un piccolo tesoro di persone ed esperienze.

Nonostante abbia amato quei luoghi, non mi ci sono mai veramente affezionata.
Con un’unica grande eccezione ovviamente: i luoghi delle radici.

Stretto di Messina

Credo che sia per ragioni di imprinting o cose simili.
Ad ogni modo, ciò che ci lega ai luoghi natii è ancestrale e il rapporto che ha chi se ne è allontanato è sicuramente particolare.
La letteratura ne trabocca d’altra parte.

Si tratta di qualcosa di assolutamente sentimentale: una mescolanza di amore e nostalgia condita dai ricordi d’infanzia.

Non ci avevo mai davvero pensato fino a pochi giorni fa, quando una cara amica (che vive a 2 km dalla sua casa d’origine), si è messa per un momento nei miei panni facendomi notare quanto “speciale” dovesse essere il mio rapporto con la mia nonna.
D’altra parte io non ho conosciuto un’altro modo. Posso provare a immaginarlo, ma in realtà non ho idea di cosa voglia dire nascere e crescere nello stesso posto.
[Anzi, dentro di me, mi sembra incredibile che possa capitare!]

Intensità

In un certo senso c’è comunque una routine nei rapporti, ma invece che essere quotidiana e costante, ha un moto ondivago fatto di momenti di sonnolento distacco alternati a picchi di contatto intenso.

Così, ogni volta che ritorno sullo Stretto accade infatti qualcosa di magico per me.
Improvvisamente la sensazione di essere “a casa” pur dormendo in un letto provvisorio e faticando a ricordare le strade.
E nonostante la lucida consapevolezza di vivere una vita felice altrove.

La percezione di ogni cosa cambia.
Poca voglia di dormire e recettori sensoriali in stato di allerta massima.
Cogliere TUTTO è un bisogno fisico. Mentre la scimmia della ripartenza se ne sta lì, accoccolata su una spalla.

Come un Canadair che plana sul mare per rifornirsi d’acqua: ha solo pochi secondi per riempire al massimo i serbatoi, non sono ammesse distrazioni.

Tornare per me significa fare il pieno con gli occhi di quei paesaggi mozzafiato, conservare il profumo di ogni respiro, rubare ogni frammento di conversazione in dialetto.
Significa portare con me ogni espressione e modo di dire che non ho mai modo di sentire altrimenti e che ho una tremenda paura di dimenticare.
Ma soprattutto, significa vivere i rapporti personali con l’intensità di quando si fa qualcosa come se fosse l’ultima volta.
Tutto si amplifica, in modo violento e magnifico. 

È così che la fotografia di una tavola finisce per conquistare potenza straordinaria.

Immaginate.
Siamo in campagna da Zia, un paio di settimane fa a pranzo.
L’ultimo prima di ripartire:

  • nell’aria, quell’inconfondibile odore di terra bruciata dal sole, foglie di fico, salsedine e vite in grado di riportarvi esattamente alla festa di compleanno dei vostri 6 anni (felicità pura senza compromessi);
  • intorno al tavolo, un’elevatissima percentuale delle persone che più amate al mondo;
  • sul tavolo, pipi chini [peroni ripieni] e parmigiana di melanzane: istituzioni tra i manicaretti locali. L’immancabile ricotta di pecora (chi dice che la ricotta non sa di niente dovrebbe fare un pellegrinaggio per capire di cosa parlo) e quel treccione di mozzarella che ricorderò come uno dei migliori di sempre.

Vivo in Piemonte da quasi 20 anni ormai (anche se in varie zone), di fatto metà della mia vita.
Ho imparato a comprendere il modo di pensare della gente del posto e capisco perfettamente il dialetto locale.
Mi sento parte della comunità in cui vivo e pare che i miei progetti di medio-lungo termine mi porteranno a vivere quell’esperienza esotica di non dover cambiare residenza, almeno per un po’.

Con me – indelebilmente – i paesaggi, la musica, la lingua, i sapori e gli odori del mondo che ruota intorno a questa fotografia.

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